Pubblicato il 19 gennaio 2019, ultimo aggiornamento 16 dicembre 2023
Condurre una automotrice Diesel non è molto diverso da guidare una macchina: c’è un cambio con frizione, e la velocità del motore viene variata con un acceleratore.
Un locomotore elettrico è invece totalmente diverso.
Qui tentiamo di illustrare (in forma sicuramente incompleta e semplificata – speriamo non troppo) i principi fondamentali riguardanti la regolazione di velocità del mezzo. Lo faremo evitando per quanto possibile le formule, che sono però necessarie per una piena comprensione.
Innanzitutto occorre definire di cosa stiamo parlando, perché le cose erano molto diverse su una macchina nel 1970 di come non siano su una motrice costruita oggi. Poi occorre specificare quale tipo di alimentazione abbia la macchina in questione: a corrente continua, a corrente alternata monofase o a corrente alternata trifase, perché di nuovo le cose cambiano. I motori elettrici e il loro controllo sono infatti assai diversi nelle tre tipologie: a corrente continua, asincroni e sincroni, a corrente alternata a collettore…
I motori a corrente continua sono il più vecchio tipo di motore di trazione, usato agli albori prevalentemente per i tram. Sono caratterizzati da un sistema meccanico di spazzole-collettore per trasferire corrente alla parte rotante (“rotore”, mentre la parte “fissa” si chiama “statore”).
Proprio questo è il loro maggior punto debole, perché incide sull’affidabilità (polveri ed umidità condensante possono inficiarne l’uso), sul costo (per l’usura e la necessaria manutenzione) e sulle prestazioni (limitata velocità massima).
I motori a corrente alternata monofase a collettore sono sostanzialmente analoghi a quelli a corrente continua. Generalmente per migliorarne le condizioni di lavoro vengono alimentati a frequenze più basse di quella della rete commerciale (50 Hz in Europa), e vanno alla metà (25 Hz) o a un terzo (16 2/3 Hz) di tale frequenza. Tale motore presenta più o meno gli stessi vantaggi e svantaggi di quello a corrente continua, rispetto al quale è meno efficiente. Compensa però questo fatto con una altri vantaggi che discuteremo.
I motori asincroni sono generalmente trifase. Presentano diversi vantaggi:
- non richiedono praticamente manutenzione;
- a parità di coppia prodotta, sono più leggeri e più piccoli dei motori in corrente continua;
- possono operare in ambienti umidi, corrosivi o esplosivi;
- permettono l’implementazione di una frenatura elettrica rigenerativa (un treno in discesa è frenato dal motore che funziona come alternatore e fornisce corrente alla linea).
Furono usati inizialmente per le linee con alimentazione trifase, specie sulle linee di montagna, e poi abbandonati per problematiche legate alle difficoltà infrastrutturali (la necessità di doppia linea aerea, con complicazioni in scambi e incroci), e per fortissimi vincoli sulle velocità di esercizio possibili. Come vedremo prossimamente, sono recentemente rinati grazie all’elettronica che ha permesso di risolvere i problemi citati.
Regolazione di velocità di una motrice trifase tradizionale.
Per generare corrente ad una data frequenza l’alternatore è vincolato a girare ad una velocità di rotazione fissa. Similmente il motore asincrono tende ad assumere una velocità di rotazione costante determinata dalla frequenza delle correnti di alimentazione e dal numero di coppie di poli magnetici generati dalle sue spire.
Il numero di giri al minuto del motore è determinato da:
n° giri / min = 2 * 60 * frequenza (Hz) / n° poli
dove n° poli è il numero di coppie di poli magnetici generati dalla corrente che passa per le spire (sostanzialmente quindi dipende da come è costruito il motore).
Le prime macchine trifase, le E.430, potevano infatti viaggiare sola ad una velocità data: 32 km/h, che si ricavava come come combinazione tra il numero di giri che il motore effettuava e il diametro delle ruote motrici.
Diciamo che questa era la loro “velocità di crociera”: ovviamente, partendo da ferme, attraversavano un transitorio fino a raggiungere la loro velocità caratteristica. In salita e sotto carico potevano non arrivarci, ma diciamo che “ci provavano”. In discesa venivano frenate elettricamente: sopra i 32 km/h venivano rallentate dal motore che, comportandosi da alternatore, trasformava la loro energia cinetica in energia elettrica che veniva fornita alla rete (frenatura elettrica rigenerativa). il macchinista non aveva però alcun modo di variare la velocità del convoglio, se non azionando i freni meccanici.
Non potendo variare la frequenza di alimentazione, l’unico parametro su cui agire nella formula che abbiamo visto è proprio il numero di poli. Fu quindi ideato un modo ingegnoso ma complesso per cambiare il modo con cui la corrente veniva “inserita” nelle spire. Con della circuiteria piuttosto complicata si permise al macchinista di “riconfigurare al volo” il modo in cui la corrente passa attraverso le spire, passando così da una disposizione in cui il motore aveva ad esempio otto coppie di poli ad una in cui ne aveva sei. Era il combinatore, cioè un’apparecchiatura elettrotecnica in grado di collegare tra loro i capi delle bobine in modi predefiniti. Tipicamente il combinatore offriva due opzioni di configurazione.
Un’altra possibilità era di usare due motori, vincolandoli meccanicamente a girare alla stessa velocità, e mettendone l’alimentazione in parallelo (la tensione di linea viene fornita indipendentemente ai due motori) oppure a cascata (ovvero con la tensione di linea fornita solo al primo motore, il cui l’avvolgimento del rotore alimenta in uscita l’avvolgimento dello statore del secondo). Si può dimostrare che il secondo caso (cascata) è equivalente ad avere un unico motore asincrono con un numero di poli pari alla somma dei poli dei due motori: i poli raddoppiano e quindi la velocità si dimezza.
Inizialmente si agí sulla distribuzione di corrente parallelo/cascata: tutte le macchine delle serie E.550, E.551, E.554 ed E.570 offrivano quindi due velocità di marcia: 50 km/h e 25 km/h.
Si passò poi a implementare la riconfigurazione elettrica dei motori con la variazione del numero di poli, aggiungendo sulle macchine delle serie successive il combinatore. Tramite questo si avevano a disposizione due opzioni, ad esempio 100 km/h e 75 km/h. Aggiungendo la possibilità di variare l’alimentazione dei due motori da parallelo a cascata, ciascuna delle velocità disponibili si dimezzava, e quindi si otteneva un motrice che aveva quattro velocità (ad esempio parallelo 8 poli, parallelo 6 poli, cascata 8 poli, cascata 6 poli). La E.330 poteva quindi viaggiare a 100, 75, 50 e 37,5 km/h.
In fase di avviamento e di transizione tra una velocità e l’altra le correnti diventavano di grandissima intensità, ed era quindi necessario introdurre, in serie ai motori, un reostato, cioè una resistenza variabile. Grazie alla prima legge di Ohm, dato un voltaggio applicato, la presenza di una resistenza riduce la corrente che passa. Parte della energia che fluisce è però dissipata sotto forma di calore prodotto dalla resistenza stessa (effetto Joule, terza legge di Ohm).
Ecco quindi che il macchinista aveva a disposizione vari controlli:
- combinatore
- selettore parallelo/cascata
- vari gradi di dissipazione reostatica
e con questi, oltre che con il freno pneumatico ad azione meccanica, poteva regolare la marcia del convoglio.
Approfondimenti si possono trovare in un bellissimo e ricco articolo di Giorgio Stagni o su manuali di elettrotecnica.
Regolazione di velocità di una motrice a corrente continua in epoca pre-elettronica
Per quanto radicalmente diversi, i meccanismi usabili per regolare la velocità su motrici a corrente continua si basano su approcci concettualmente simili: modifica nel fornire corrente e tensione di alimentazione (parallelo/serie invece che parallelo/cascata), meccanismi per modificare le caratteristiche intrinseche del motore (indebolimento di campo ovvero gradi di shunt, con una diversa forma di combinatore), e azione con reostati per limitare le correnti troppo elevate nei transienti. Ma andiamo con ordine.
La velocità di rotazione a vuoto di un motore a corrente continua è proporzionale alla tensione applicata. Supponiamo di avere 12 motori uguali sotto catenaria da 3000 Volt. Se li colleghiamo in serie (ovvero ad ogni uscita di un motore colleghiamo l’ingresso del prossimo), su ciascuno di essi cadrà un dodicesimo della tensione, ovvero 250 Volt.
Se li raggruppiamo lungo due fili paralleli, in ogni filo avremo 6 motori, e una caduta di tensione pari a un sesto del totale (500 Volt) su ciascun motore.
Possiamo ripetere l’operazione con tre fili da quattro motori, con caduta di 750 Volt per motore, o con quattro fili da tre motori ciascuno, e allora ciascun motore avrà una caduta di 1000 Volt. Poiché ad ogni voltaggio applicato corrisponde una velocità di rotazione del motore, ecco che quindi avremo quattro gradini di velocità possibile, a seconda del modo con cui abbiamo connesso i motori all’alimentazione. Già solo con questo, avremmo fatto pari e patta con i motori asincroni…
I tipi di combinazioni menzionate sono chiamate in ferrovia “Serie“, “Serie-Parallelo“, “Parallelo” e “Super Parallelo“.
Potremmo immaginare anche altre combinazioni, con sei fili e due motori per filo, e persino con dodici fili e un motore per filo, ma basta così, perché nell’esempio ipotizzato già con il superparallelo siamo arrivati a prelevare la corrente massima ammessa dal pantografo (non possiamo né vogliamo entrare in troppi dettagli, per il quali rimandiamo al solito manuale di elettrotecnica).
Veniamo a questo punto al secondo meccanismo, ovvero a una sorta di riconfigurazione al volo della struttura del motore. Un motore di potenza non si basa su magneti permanenti che sono inglobati nello statore, come ad esempio nel caso dei motori dei trenini, ma piuttosto su campi magnetici generati elettricamente: lo statore ha degli avvolgimenti (spire) necessari proprio a generare il campo magnetico. L’intensità del campo magnetico generato (eccitazione) è nuovamente un fattore che determina la velocità di rotazione del motore.
Uno dei parametri fondamentali è il numero di spire che lo compongono: avere più spire significa indurre un campo magnetico più intenso. Per ridurre il campo occorre diminuire la corrente che lo genera. Lo si può fare in due modi. Il primo è di usare il cosiddetto shunt, o derivatore di corrente: si applica una resistenza in parallelo alle bobine di campo che sottrae alle spire parte della corrente che vi circola (shunt resistivo o Ohmico). Il secondo modo ottiene una indebolimento del campo mediante la riduzione del numero di spire. La prima opzione dissipa energia per effetto Joule (e quindi è preferibile evitarla, perché è uno spreco, e perché provoca surriscaldamenti), la seconda è complicata perché richiede di agire sulla struttura stessa del motore, ma si può fare.
Per raggiungere il risultato, le matasse dell’avvolgimento di eccitazione hanno le le spire divise in sezioni.
Un apposito dispositivo (il CIC, Combinatore di Indebolimento di Campo) permette di scegliere la combinazione di avvolgimenti da attivare, e quindi di variare l’intensità del campo magnetico generato.
Variando la combinazione di spire, il CIC presenta al macchinista più “gradini” di indebolimento di campo (da uno solo nella E.636 a cinque per le E.646, E.656, E.444R
ed diverse E.424). A questo punto ciascuna delle velocità principali ottenuta con le combinazioni serie – parallelo può essere modulata con i gradini di indebolimento di campo, ottenendo quasi una ventina di velocità utili. I motori a campo indebolito sviluppano una coppia minore di quelli che lavorano a campo pieno perché è minore il flusso magnetico che genera la coppia motrice: vanno più veloci ma hanno meno coppia.
Come nel caso della trifase, rimane il problema dell’avviamento e di alcuni transitori, nei quali si usa il reostato (resistenza variabile) per limitare la corrente che fluisce. In teoria il reostato potrebbe essere usato anche per regolare la velocità, perché il suo effetto è di abbassare la tensione che viene applicata ai motori, ma il problema sarebbe l’effetto Joule: il reostato si scalderebbe pericolosamente, e l’energia trasformata in calore sarebbe “buttata” (con costi e inefficienze energetiche connesse).
Alla partenza la combinazione dei motori dovrà essere in serie. L’avviatore automatico esclude progressivamente le resistenze del reostato e il treno prende progressivamente velocità. Il macchinista passerà attraverso una serie di indebolimenti di campo prima di impostare la combinazione in serie-parallelo, e procederà poi allo stesso modo alternando gli indebolimento di campo con il cambio di combinazioni.
Anche qui, rimandiamo a un altro bell’articolo di Giorgio Stagni per approfondimenti.
Le motrici in corrente continua non prevedono frenatura elettrica rigenerativa. C’è la possibilità di effettuare frenatura elettrica, ma la corrente generata non viene recuperata ma dispersa in calore da delle resistenze (frenatura elettrica reostatica).
Regolazione di velocità di una motrice a corrente alternata in epoca pre-elettronica
Il motore universale (ovvero il motore a corrente continua a collettore) può essere usato anche in corrente alternata monofase. E’ meno efficiente che in continua, a causa di fenomeni di isteresi che si hanno all’inversione della polarità, ma questo è meno importante a frequenze basse (ed ecco uno dei motivi per cui la frequenza della corrente alternata ferroviaria è più bassa di quella commerciale: 16 2/3 Hz sulle reti ferroviarie del mondo tedescofono). La regolazione di velocità è qui molto più semplice: sulla motrice è montato un trasformatore.
Un trasformatore elettrico è composto da una anello di materiale ferromagnetico (detto nucleo) sul quale vi sono due avvolgimenti, detti primario e secondario. Se una corrente alternata percorre il primario, questa genera un campo magnetico variabile che viene in buona parte “imprigionato” nel nucleo, che lo conduce ad attraversare l’avvolgimento secondario. In quest’ultimo, proprio la presenza di un campo magnetico variabile genera una corrente: il valore di tensione prodotto dipende dal rapporto tra il numero di spire che compongono i due avvolgimenti. E’ possibile andare a prelevare la corrente in punti diversi del secondario, ottenendo tensioni differenti a seconda di quante spire sono state coinvolte.
Sfruttando questo principio, i trasformatori delle motrici elettriche offrono molti punti di prelievo, corrispondenti a tante tensioni diverse. Usando queste tensioni per alimentare i motori si possono ottenere un equivalente numero di velocità di rotazione del motore.
Pertanto, già nel 1920 il Coccodrillo svizzero offriva in modo semplice una ventina di velocità di esercizio tra 0 e la velocità massima di 65 km/h: praticamente un continuo. La commutazione di velocità si aveva semplicemente cambiando la “presa di corrente” sul trasformatore.
Uno svantaggio di questa scelta tecnologica è di dover avare a bordo un trasformatore, che pesa anche a causa dei liquidi di raffreddamento necessari durante il suo lavoro. Al tempo stesso però questo consente di svincolare la tensione di rete da quella del motore, alzandola: tanto ci pensa il trasformatore ad adeguare la tensione ai livelli necessari al motore. Alta tensione significa, a parità di potenza erogata, correnti più basse che circolano sulla rete di distribuzione. Queste ultime significano meno dispersione per effetto Joule durante il trasporto della corrente, che dalla sottostazione elettrica deve correre per chilometri per raggiungere la motrice sulla linea. Una minor dispersione significa anche aver minor calo di tensione, e poter tenere le sottostazioni a distanza maggiore: anche fino a 50 km, contro i 20 tipici da noi con la corrente continua a 3000 Volt (e quindi maggior semplicità, minori costi, ecc.).
Per finire il confronto citiamo che con la corrente alternata monofase il freno elettrico rigenerativo è possibile, tanto che il citato Coccodrillo lo aveva.
Chiudiamo qui questa chiacchierata sull’era pre-elettronica: di quella successiva discutiamo in un’altra nota.
Rimandiamo per approfondimenti sulle questioni trattate al testo “Meccatronica. Elementi di Trazione Elettrica” di Di Luca Pugi.
Infine, giacché abbiamo parlato di “guida” di treni, segnaliamo una interessante rassegna dell’evoluzione storica della cabina di guida su modellismotropea.blogspot.com.
A voler fare i pignolini occorrerebbe specificare (tu lo hai scritto solo tra le righe) che gli attuali motori trifasi asincroni con rotore a “gabbia di scoiattolo” non hanno nulla a che fare con i motori delle macchine trifasi del primo Novecento, a rotore avvolto e collettore ad anelli… ma è sempre l’elettrotecnico che è in me a parlare 🙂