Pubblicato il 4 febbraio 2017
L’orografia italiana ha fatto sì che strade e ferrovie fossero soggette a notevoli tortuosità, almeno fino a quando in epoca recente si è iniziato a fare uso massiccio di (costosissimi) sbancamenti, trincee, gallerie e viadotti.
In ambito ferroviario, per le difficoltà costruttive, questo ha limitato l’estensione della rete e la robustezza dell’armamento, cosicché, rispetto alle ferrovie tedesche o francesi, le nostre hanno sempre dovuto limitare il peso dei rotabili, e conseguentemente anche la potenza, come abbiamo discusso ad esempio nel caso della Gr. 690/691.
E’ stato necessario ingegnarsi per trovare soluzioni di compromesso che riuscissero a risolvere il busillis generato dalle condizioni dette: come conciliare le esigenze di potenza, peso e agilità delle motrici? Fu proprio un colpo di ingegno che sul finire dell’800 permise all’ing. Giuseppe Zara della Rete Adriatica di ideare una soluzione tecnica che sarebbe stata fondamentale nello sviluppo della trazione ferroviaria in Italia: il carrello sterzante ad aderenza parziale detto “carrello Zara” e più noto col nome di “carrello italiano“, in contrapposizione con il cosiddetto “carrello americano” a due assi portanti (come quello usato ad esempio sulle nostre “Pacific” 690/691.
Prima di entrare nei dettagli del “Carrello Italiano”, ripercorriamo la strada dei carrelli usati in precedenza. Iniziamo con il carrello a un singolo asse detto “Bissel”.
Nel 1857 Levi Bissell brevettò un sistema per facilitare l’ingresso in curva delle locomotive: un carrellino anteriore ad un asse non motore. Scopo principale del carrello (chiamato “Bissel“, con una sola L, in Europa, e Bissell truck, con due L, o Pony truck in USA) è di favorire il percorso in curva della locomotiva. Il carrello, a ruote piccole, segue il binario anticipando il carro motore, ed esercitando sullo stesso, nel punto di snodo, una forza radiale centripeta che di oppone alla forza centrifuga, aiutando il carro a seguire il binario, e permettendo quindi una percorrenza della curva a velocità maggiore.
Il Bissel anteriore aveva, come visto, una funzione sterzante. Spesso però se ne usava anche uno posteriore, questa volta con funzione portante: parte del peso della locomotiva veniva scaricato su di esso, così da diminuire il peso assiale della macchina.
All’occorrenza, le motrici venivano progettate con una numero più elevato di assi portanti, a volte anche due anteriori e due posteriori. Nel caso di una coppia di assi portanti, questi venivano sistemati in un carrello a due assi. Questo, a differenza del Bissel, è sostanzialmente un piccolo veicolo vero e proprio. E costituito da un telaio che abbraccia quattro boccole, ed ha la sua sospensione. E’ unito al telaio della locomotiva da un perno accoppiato ad una ralla posta in posizione centrale: tramite questa, parte della massa della locomotiva si scarica sui due assi portanti.
Poiché però il carrello segue la curva da percorrere, la ralla deve poter traslare lateralmente: questo è reso possibile collocandola su un sostegno sospeso mediante dei tiranti al telaio stesso del carrello; tale sostegno viene chiamato traversa oscillante (o traversa danzante). Grazie a delle biellette verticali (in giallo in figura) la traversa danzante (blu) su cui è posta la ralla (rossa) e sulla quale poggia il telaio della locomotiva è libera di muoversi trasversalmente rispetto all’asse della motrice. Una barra di richiamo (viola nel disegno) coadiuvata da una molla a bovolo aiuta la traversa a tornare in posizione di riposo al termine della curva.
Un carrello di questo tipo è detto carrello americano.
Fatte queste premesse, torniamo alle problematiche delle locomotive italiane di fine ‘800.
Come detto, serviva aumentare la potenza, il che significava avere caldaie più grandi e scorte maggiori, dunque masse accresciute. Per non superare il carico assiale ammesso dalle linee, che nelle ferrovie italiane era significativamente limitato, era necessario aumentare il numero di assi, ma per non diminuire troppo il peso aderente occorreva che questi fossero motori (ricordiamo che di peso assiale ed aderente abbiamo discusso in un’altra nota: a chi non è familiare con questi termini converrà leggerla prima di proseguire, per poter comprendere appieno la questione discussa qui).
Dunque servivano tanti assi motori. Gli assi erano resi motori da una biella di accoppiamento, ovviamente diritta e rigida: questo li vincola a comportarsi come un blocco unico, e fa si che il passo rigido sia molto lungo. Il termine passo rigido definisce la distanza tra il primo e l’ultimo degli assi montati su uno stesso carro o carrello che non hanno possibilità di traslare assialmente in alcun modo. Va da sé che Il passo rigido rende problematica l’inscrivibilità di un rotabile nelle curve, ne limita il raggio minimo ed aumenta la cosiddetta aggressività sul binario, che determina una rapida usura del binario stesso e dei bordini delle ruote. E’ lo stesso problema che in anni più recenti ha determinato la sostanziale impossibilità di adottare, in Italia, locomotori con rodiggio Co’Co’, come nel caso della mai realizzata E.666.
Era un problema serio, ed era necessario trovare soluzioni. Per esempio, la più potente locomotiva italiana, la 470, aveva ben cinque assi accoppiati.
La distanza tra il primo e l’ultimo asse era di ben 6 metri, il che avrebbe reso pressoché impossibile curvare. Per ovviare al problema facilitando l’iscrizione in curva, le ruote dell’asse centrale erano prive di bordino, e gli assi estremi erano in grado di traslare trasversalmente di 40 mm. Questo riduceva il passo rigido alla distanza tra il secondo e il quarto asse, ovvero a tre metri. Era sostanzialmente la stessa soluzione impiegata dai prussiani per la loro T16¹, poi classificata come BR 94 5-17 e divenuta, in due esemplari, la “Pierina” italiana (Gr. 897). Nonostante questi trucchi però la Gr.470 non era esattamente una campionessa di slalom…
Per avere una motrice adatta ai nostri percorsi tortuosi occorreva ridurre il numero di assi motori vincolati, ma come detto senza eccedere nel peso assiale, e senza tuttavia perdere peso aderente. Una soluzione avrebbe potuto essere quella delle Mallet, come quella usata ad esempio sulle R.600 della Val di Fiemme o sulle R.442: suddividere gli assi motori in due carrelli liberi di ruotare uno rispetto all’altro, e con passo rigido contenuto. Questo però comportava una maggior complessità costruttiva e manutentiva.
In quale altro modo si poteva ridurre il passo rigido? Questo era il problema che si presentava ai progettisti di locomotive a fine ‘800, in particolar modo a chi doveva disegnare motrici adatte a ferrovie tormentate come le nostre. La soluzione ideata da Zara si basò sull’osservazione dell’esistente: buona parte delle locomotive avevano un carrello anteriore sterzante (bissel, o americano). Questo aveva, come visto, lo scopo di favorire l’inserimento in curva della macchina ed eventualmente di scaricare parte del peso, così da diminuire il peso assiale (anche se a detrimento di quello aderente). L’idea di Zara fu di montare il primo degli assi motori proprio sul carrello sterzante. A prima vista si direbbe “impossibile”! L’asse motore deve essere collegato alla biella di accoppiamento, quindi non può curvare! Come può essere?
I dettagli tecnici sono riportati in un bell’articolo di Giancarlo Giacobbo reperibile in rete, molto ben documentato, ed in una discussione sul forum duegi. Ci permettiamo di provare a riassumerlo qui per sommi capi, riutilizzandone parte delle immagini, e rimandando il lettore interessato ai dettagli all’originale.
L’ingegnosa soluzione sta essenzialmente nel far si che il centro di rotazione del carrello stia al centro dell’asse della ruota motrice, cosicché gli spostamenti di questa siano limitati. Telaio della locomotiva e telaio del carrello sono collegati tramite una balestra appesa a due pendini che possono inclinarsi, così da permettere spostamenti relativi tra i due telai.
Il punto di appoggio del corpo macchina non può però essere sul centro di rotazione, perché altrimenti graverebbe interamente sull’asse motore, mentre si vuole che in parte gravi sull’asse anteriore portante al fine di ridurre il carico assiale. Quindi il punto di appoggio (in figura in rosso) è posto più avanti (circa a metà carrello, in una posizione che varia a seconda del tipo di locomotiva e della ripartizione di pesi che si vuole ottenere).
Il problema è che poiché il carrello ruota rispetto al corpo macchina, il punto di appoggio non può essere fisso ma deve poter traslare lateralmente rispetto al carrello. Questo però è analogo a quanto si riscontra nel carrello americano, e si risolve allo stesso modo: tramite la traversa oscillante (o danzante) della quale abbiamo già detto.
Resta il problema dell’accoppiamento: come è possibile tramite le bielle accoppiare la ruota motrice del carrello alle altre se questa ruota? Il trucco è che NON ruota, ma resta parallela agli altri assi motori, grazie a due lunette di rotazione e alla trave oscillante con balestra.
Questo parrebbe vanificare gli sforzi fatti: se resta parallelo, dove sta il vantaggio e la riduzione del passo rigido? Il fatto è che lo spostamento del primo asse (quello non motore) nel seguire il binario genera, come nel caso del Bissel, una forza centripeta che ora si applica all’asse motore che si trova sul carrello italiano: quest’asse quindi trasla leggermente (di un paio di centimetri) verso il centro della curva.
Naturalmente anche questo richiede che la biella di accoppiamento possa seguirne lo spostamento, il che si ottiene tramite dei snodi sferici, e lasciando un po’ di gioco sui perni di accoppiamento delle altre ruote motrici (specie le intermedie).
Il carrello italiano può essere considerato una variante del carrello tedesco Krauss-Helmholtz, rispetto al quale di differenziava per la diversa distribuzione del carico, ed una conseguente notevole diversità della struttura generale, data soprattutto dalla possibilità di spostarsi trasversalmente rispetto al telaio della locomotiva, con richiamo elastico mediante molle. Nel tempo però il carrello Krauss-Helmholtz subì una evoluzione che lo portò ad assomigliare a quello disegnato da Zara.
Per la verità, il Cornolò (nel libro “Locomotive a vapore“) distingue tra il “carrello italiano” sopra descritto e il “carrello Zara“, che secondo la sua versione sarebbe simile, ma che invece di avere un punto di appoggio sul perno traslabile scaricava il peso direttamente sulle boccole degli assi: il carico era bilanciato tra i due assi con un sistema di tiranti e bilancieri.
La soluzione ideata dal progettista italiano fu talmente di successo che la maggior parte delle motrici italiane a vapore costruite nel ventesimo secolo con un singolo asse portante anteriore lo adottarono, riuscendo così a ridurre il passo rigido alle solo ruote motrici che seguono la prima.
Lo stesso principio fu applicato anche alle locomotive trifase con carrelli portanti, come ad esempio la E.330.
L’articolo di Giacobbo presenta altri dettagli, ed interessanti foto dei particolari costruttivi, ma speriamo che quanto riassunto qui permetta almeno di intuire l’essenza del funzionamento del “carrello italiano”.
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